Impagabile, impareggiabile, Tempi moderni è e rimarrà sempre una pietra miliare del cinema, ma soprattutto un’acuta ed intelligente (ma anche sentimentale) riflessione sull’epoca appena trascorsa, il secolo del progresso che non è mai approdato da nessuna parte. La sua forza cinematografica infine sta nel non aver scelto il passaggio completo al sonoro (non esistono veri dialoghi) ed esser riuscito a esporre una matura critica della società (e verso il Nuovo Ordine Mondiale) con la sola forza del racconto visivo e l’uso intelligente delle gags.
La solita elite di finanzieri Illuminati ha voluto ridurre l'operaio solo ad un semplice numero, cercando contemporaneamente di fare pensare l'opinone pubblica il meno possibile. Ad un certo punto del film, da molti giudicata solo una mera parentesi comica tra le tante, Chaplin manda un messaggio, quasi un avvertimento ma non recepito ai più: nella scena in cui è costretto a cantare esibendosi al pubblico senza sapere le parole (i polsini con il testo scritti sopra gli erano andati via con una sua mossa - NB), improvvisa cantando in Grammelot, un misto incomprensibile di francese, spagnolo ed italiano.
Alla fine, dopo tutte le sue "mosse" e grazie al Grammelot, viene applaudito riscuotendo successo.
Morale: al popolo basta dare del fumo negli occhi, fare vedere ciò che vuol vedere ed approverà qualsiasi cosa, anche se non ha capito nulla del messaggio. Questa è la strategia degli Illuminati ma Chaplin già l'aveva intuita a quei tempi :
La monella è raggiante di felicità perché ha trovato un impiego come ballerina presso un ristorante, in cui le riesce di fare assumere come cameriere anche Charlot. L'impiego prevede inoltre un'esibizione come cantante e Charlot deve ricorrere all'espediente di scriversi il testo della canzone sui polsini, perché non riesce a ricordarlo. L'operazione è però inutile, poiché al primo gesto del numero i polsini gli si sfilano ed egli è costretto ad improvvisare le parole sul famoso pezzo della "Titina", primo e unico episodio di interpretazione sonora del vagabondo. Sarà grazie a questa abilità e al discreto successo ottenuto, più che alle doti di cameriere (travolto dal pubblico danzante peregrinerà per il locale nel tentativo di servire l'anatra che un cliente attende impaziente al tavolo e che non avrà il piacere di gustare), ad assicurargli l'assunzione definitiva.
Tempi moderni. Charles Spencer Chaplin. 1936. USA.
Attori: Charles S. Chaplin, Paulette Goddard, Henry Bergman, Chester Conklin, Allan Garcia
Durata: 85’
Titolo originale: Modern times

Sono davvero poche le pellicole in grado di resistere al logorio del tempo e della storia, e Tempi moderni non solo è una di quelle che riesce a vincere questa regola, ma è anche una di quelle pellicole capaci di dire tutto insieme in una volta sola, e per sempre. Ricorrendo al suo umorismo scanzonato e sagace, Chaplin questa volta costruisce una feroce parodia dei tempi (oggi come ieri sempre più moderni) dove il senso del progresso contrasta sia con il mercato del lavoro che soprattutto con i sentimenti umani. Tra tutte le figure che appaiono in questa pellicola infatti, sono ancora i diversi ad apparire come quelli sani, o forse sarebbe meglio dire come le vittime sacrificali di un mondo che prosegue verso la via dell’industrializzazione e del progresso schiacciando la forza lavoro, la personalità e le aspirazioni (sogni di una vita borghese interrotti dal manganello della polizia). Anche il ladro del grande magazzino per esempio, viene presentato non come un delinquente ma come un uomo costretto a rubare per mancanza di cibo e lavoro. In questo atteggiamento (la scelta della bellissima Paulette Goddard per rappresentare la delinquenza derivante dalla povertà) il regista/attore pone al centro della sua critica le condizioni cui la società stessa porta, partendo dall’assurdo della produttività. Tutte le volte infatti che le cose sembrano girare bene, per un caso o per un altro, il regista sceglie di capovolgere la fine di un processo innescandone un altro, spesso repressivo. La via del progresso per i due protagonisti rimane allora una strada vuota e deserta da affrontare con un sorriso (il recupero di Charlot vagabondo), amaro come l’intramontabile ottimismo che Chaplin riusciva a dare ai propri personaggi. Costruito su tre/quattro sequenze memorabili come quella della macchina per mangiare, ma anche quella in cui viene risucchiato dai macchinari o la memorabile canzone nel ristorante dove per la prima volta il genio del cinema comico si esibisce con la propria voce eseguendo una strampalata versione della canzone Je Cherche Apres Titine di Bertal-Maubon-Ron-Leo Daniderf e che risaliva al 1917. Da film comico Tempi moderni si trasforma in un film altamente riflessivo e melanconico (la catapecchia come rifugio sentimentale; le repressioni poliziesche; la questione degli homeless d’America) capace con grande coraggio a mettere in faccia al pubblico, deridendolo, un senso di progresso fiacco e sfinito. Come funzionano i tempi moderni (dove per tempi s’intende soprattutto quelli di produzione) secondo Chaplin? Funzionano pressappoco così, con un operaio (non più il vagabondo, ma la sua figura riconsegnata al baratro della disoccupazione), ai limiti dell’alienazione (secondo le teorie di Marx) che rischia il collasso nervoso o il carcere nel momento in cui non è capace ad adeguarsi ai ritmi produttivi e, una volta entrato in questo (corto)circuito, non ha più né i mezzi né gli strumenti per uscirne, rimanendo vittima di un circolo vizioso che lo vuole per sempre sovversivo e vagabondo. Non c’è posto in città per chi non si adegua alla modernità dei tempi, e la strada che gli rimane è quella che conduce lontano, verso il vuoto o il nulla sulla quale è giusto però continuare a spianare il proprio sorriso. È una delle più intelligenti e mature riflessioni sul crollo economico del ’29 (al quale il regista era scampato convertendo i dollari in moneta canadese), una di quelle storie capaci di mettere in guardia i sentimenti di fronte all’aggressività della produzione. Ed è un film sostanzialmente marxista poiché rielabora il dominio della macchina mettendolo giustamente in relazione alle differenze di classe ed all’alienazione cui i protagonisti sono sottoposti, scelte che procurarono non pochi problemi al regista, da sempre osteggiato nel suo paese e tacciato di comunismo fino ad entrare nelle liste nere del maccartismo. Tempi moderni è liberamente ispirato, teoricamente, al film A me la libertà (1931) di Renè Clair il quale, quando seppe che il regista americano si era ispirato ad un suo lavoro, si dichiarò umilmente onorato [i], ma ciò non impedì ugualmente che fosse aperta una controversia giudiziaria [ii]. Per realizzare il film Chaplin impiegò 100.000 metri di pellicola e dieci mesi di riprese, per una spesa complessiva di un milione e mezzo di dollari e che si concluse con un deficit (per quanto riguarda il paese americano) di 500.000 $. Le musiche della pellicola furono scritte dallo stesso Chaplin ed eseguite dal maestro Alfred Newman. Impagabile, impareggiabile, Tempi moderni è e rimarrà sempre una pietra miliare del cinema, ma soprattutto un’acuta ed intelligente (ma anche sentimentale) riflessione sull’epoca appena trascorsa, il secolo del progresso che non è mai approdato da nessuna parte. La sua forza cinematografica infine sta nel non aver scelto il passaggio completo al sonoro (non esistono veri dialoghi) ed esser riuscito a esporre una matura critica della società con la sola forza del racconto visivo e l’uso intelligente delle gags. All’epoca della sua uscita il film ottenne credito solo in Francia, Inghilterra e Russia mentre fu un fiasco nel proprio paese e bollato di filo-comunismo in Germania [iii], quando in realtà l’obbiettivo del regista era quello di rimanere super partes (infatti è occasionalmente che partecipa agli scioperi) conservando e difendendo la propria natura e autonomia anarchica. Rieditato negli Anni Cinquanta il film ha mostrato un carattere tipico dei vini buoni, invecchiando infatti è migliorato e con il tempo assume un’importanza ed un valore sempre superiore.
http://www.cinemah.com
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