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venerdì 22 aprile 2011

Bigfoot

Secondo la descrizione fatta da Beck, "Bigfoot" è una creatura alta non meno di 2,40 m, robusta e muscolosa. Assomiglia a un gorilla, ma alcune caratteristiche, come per esempio l’uso delle pietre da lanciare, inducono a ritenerlo anche molto simile a un uomo.
BIGFOOT
Come la strepitosa sfida all'OK Corrai, anche l'assedio del cosiddetto Canyon della Scimmia è entrato a far parte del folklore americano.
La storia incominciò nel 1924, presso un gruppo di minatori insediati sulle pendici del monte Sant’ Elena nello stato di Washington, a poco più di 100 km di distanza a nord di Portland, nell'Oregon.
Un giorno, alcuni di loro videro una specie di grossa scimmia uscire dal folto degli alberi. Uno aveva fatto fuoco con un fucile, convinto di averla colpita alla testa. Ma la creatura aveva trovato riparo nella foresta.

Poi un altro minatore, Fred Beck che si sarebbe deciso a raccontare l'episodio solo trentaquattro anni dopo aveva incontrato un altro scimmione lungo il pendio del canyon e gli aveva sparato tre colpi, ferendolo alla schiena.
L'animale era scivolato per il crinale, accasciandosi come morto, ma quando i minatori erano accorsi sul posto non avevano trovato nulla. Quella stessa notte, dal crepuscolo al mattino, le loro baracche erano state assediate da misteriose creature che avevano picchiato alle porte, lanciato sassi ed erano salite a battere sul tetto. Spaventati, i minatori erano stati costretti a rinforzare le porte puntellandole dall'interno e avevano sparato alla cieca nel buio della notte e attraverso le feritoie delle pareti e del soffitto. Ma a poco era valso. Le creature erano evidentemente molto arrabbiate e determinate e non avevano desistito dall'attacco che si era protratto fino alle prime luci dell'alba. Quello stesso giorno i minatori avevano abbandonato l'accampamento. Secondo la descrizione fatta da Beck, "Bigfoot" è una creatura alta non meno di 2,40 m, robusta e muscolosa. Assomiglia a un gorilla, ma alcune caratteristiche, come per esempio l’uso delle pietre da lanciare, inducono a ritenerlo anche molto simile a un uomo. Il racconto dell'assedio subito da Beck e dai suoi compagni, unitamente ad altre testimonianze, sul finire degli anni Cinquanta rese Bigfoot una specie di celebrità nazionale. In realtà storie simili circolavano da secoli nelle tradizioni locali. Gli indiani Salish della Columbia britannica chiamavano queste creature "Sasquatch", che significa "uomo selvatico delle foreste". Le tribù indiane della California del nord le chiamavano "Oh-mah-ha"; mentre per quelle della zona delle Cascades erano "Seeahtiks". L'esistenza di intere colonie di questi esseri, oggi tranquillamente viventi nel nord degli Stati Uniti e dei Canada suona, bisogna ammetterlo, decisamente assurda; anche se sono poche le persone che si rendono conto veramente di quanto estese siano le foreste di conifere di queste terre sterminate. Milioni di chilometri quadrati di macchie totalmente disabitate, per gran parte ancora inesplorate, dove, per assurdo, anche mandrie di giganteschi dinosauri potrebbero passare inosservate. La più antica storia relativa a impronte di Sasquatch risale al 181. Mentre stava valicando i passi montani che si elevano alle sorgenti del fiume Colombia, nei pressi dell'odierna Jasper, nello stato di Alberta, il celebre esploratore David Thompson e il suo compagno di avventura, si erano imbattuti in una profonda impronta, lunga più di 40 cm, caratterizzata da quattro dita munite di unghioni. Thompson, per quanto interdetto, aveva subito pensato a un gigantesco grizzly, ma il compagno lo aveva dissuaso, facendogli notare che gli orsi hanno cinque dita; osservazione corretta, ma che non pregiudicava la soluzione, potendosi immaginare un orso privo di un dito. Il 4 luglio 1884 il «Daily Colonist» di Victoria, Columbia britannica, pubblicava un articolo sulla cattura di un Bigfoot. Jacko (nome con cui veniva indicato il cacciatore) aveva catturato un esemplare dalle ridotte dimensioni, alto non più di 120 cm e pesante soltanto una sessantina di chilogrammi. L'essere era stato avvistato da un gruppo che si stava muovendo lungo il fiume Fraser, da Lytton a Yale, sotto i monti Cascade, ed era stato catturato con relativa facilità. Aveva lunghi e spessi capelli neri e una folta peluria che ricopriva tutto il corpo. Le braccia erano più lunghe di quelle di un uomo e aveva la forza sufficiente a spezzare in due un grosso ramo. Sfortunatamente, dopo questa citazione, del misterioso Jacko si perdono le tracce, anche se il naturalista John Napier testimonia che la creatura venne a più riprese esibita presso il circo Bamum e il circo Bailey. Nel 1910 Bigfoot torna alla ribalta per una brutta storia avvenuta nella valle di Nahanni, presso il Grande Lago degli Schiavi, nei Territori del nord-ovest. I due fratelli MacLeod furono trovati decapitati in un anfratto della valle, che da quel giorno venne appunto ricordata come la Valle dei decapitati. In realtà, l'ipotesi più plausibile farebbe pensare a un attacco indiano o di qualche gruppo di desperados, tuttavia, all'epoca, si parlò di Bigfoot, fatto che andò ad aggiungere un tocco di horror a una leggenda già consolidata. Nel 1910 sul «Seattle Times» comparve un articolo sui cosiddetti "diavoli della montagna" che avevano assediato la capanna di un cercatore d'oro sul monte San Lorenzo, nei pressi di Kelso. Gli attaccanti erano descritti come umanoidi per metà mostruosi, dalle fattezze gigantesche, alti dai 2 ai 2,50 m. Gli indiani locali, appartenenti alle tribù dei Clallam e Quinault, ben li conoscevano e li chiamavano Seeahtiks. Nelle loro leggende si dice che l'uomo derivò dagli animali e che per questi esseri la creazione si era come fermata a metà, sospesa. Una delle storie più eclatanti legate alla presenza di un Bigfoot risale al 1924, sebbene non sia stata divulgata che molto tempo dopo, nel 1957, portata alla luce da John Green, autore del libro On the Track ofthe Sasquatch. Albert Ostmail, taglialegna e falegname, stava cercando dell'oro alle fonti del fiume Toba nella Columbia britannica, quando un giorno per la prima volta aveva sentito parlare da un barcaiolo indiano della "grande razza" che viveva sulle mondiglie. Dopo una settimana di sopralluoghi aveva infine sistemato un campo base di fronte all'isola di Vancouver. La mattina successiva aveva però avuto una sorpresa: le provviste erano state saccheggiate da qualcuno. Per scoprire chi poteva essere il ladro, la seconda notte aveva solo fatto finta di andare a dormire, restando silenzioso in attesa nel sacco a pelo con un fucile carico ben imbracciato. Qualche ora più tardi era stato svegliato: «Venni ridestalo da qualcosa o qualcuno che mi toccava. Ero addormentato e dapprima non mi riuscì di comprendere quel che mi stava capitando. Appena misi insieme qualche idea mi resi conto che, infagottato nel mio sacco a pelo, mi stavo muovendo». Dopo un po' chi lo stava trasportando lo aveva deposto a terra. Era così riuscito a sgattaiolare fuori dal sacco a pelo e si era trovato alla presenza di una famiglia di quattro Sasquatch: il padre, un grande esemplare maschio alto quasi 2,50 m; la madre, un figlio e una figlia ancora molto piccola. La femmina adulta era alta almeno un paio di metri, poteva si e no avere una quarantina d'anni e pesare almeno 200 kg. In apparenza non sembrava volessero fargli del male, ma, di sicuro, lo tenevano d'occhio per non lasciarlo scappare. Gli venne da immaginare che, forse l'avrebbero trattenuto come compagno per la femmina più giovane, ancora immatura e senza seno. Dopo essere stato costretto a trascorrere sei giorni con loro, era riuscito a riprendere il fucile e a far partire qualche colpo. Nella confusione generale, mentre le creature si nascondevano per difendersi, se l'era data a gambe. Quando Green gli chiese come mai avesse atteso tanto tempo prima di rendere pubblica quella sua straordinaria avventura, Ostman rispose che lo aveva fatto perché nessuno gli avrebbe dato retta. Nel 1928 un indiano della tribù Nootka di nome Muchalat Harry si presentò a Nootka, sull'isola di Vancouver, vestito soltanto del perizoma, trafelato e ancora visibilmente spaventato. Riferì che mentre stava recandosi come ogni giorno al fiume per cacciare e pescare, era stato catturato da un bigfoot che lo aveva condotto a molti chilometri di distanza. Sul calare del giorno si era infine trovato in una specie di accampamento dove c'erano non meno di venti di quelle strane creature, le quali gli avevano fatto intendere che l'avrebbero divorato. Ad un tratto, infatti, uno dei più grossi gli aveva azzannato il perizoma come per addentarlo, facendogli intendere che non era in grado di distinguere la pelle da un indumento. Per alcune ore, terrorizzato, era rimasto paralizzato in un angolo, poi, nel pomeriggio, la tribù sembrò aver perso interesse verso di lui e si era mosso alla ricerca di cibo. Avuta l'opportunità di scappare, Harry era filato via e dopo una quindicina di chilometri, riconosciuti i luoghi, aveva recuperato la sua canoa. Da qui, dopo una vogata di quasi 60 km aveva raggiunto l'isola di Vancouver, dove aveva raccontato la sua terribile esperienza a padre Anthony Terhaar, della missione benedettina locale. Il padre disse che Harry era arrivato così prostrato e terrorizzato che era stato colpito da un improvviso collasso dal quale aveva potuto riprendersi soltanto molto tempo dopo. Lo spavento era stato così grande che i capelli gli erano diventati tutti bianchi. Da quel giorno non aveva più osato allontanarsi dal villaggio. Nel 1967, Glenn Thomas, un taglialegna di Estacada, nell'Oregon, mentre stava tracciando un sentiero a Tartan Springs sulla Round Mountain, aveva avuto agio di osservare ben tre figure sconosciute dai lunghissimi capelli, intente a spostare alcuni massi per poi scavare per almeno un paio di metri. Alla fine del lavoro, la creatura femminile aveva estratto da una tana alcuni roditori che erano stati divorati sul momento. Gli investigatori che indagarono sulla sua storia, nel luogo indicato dal taglialegna, trovarono non meno di una ventina di grossi buchi e tutto attorno macigni chiaramente spostati dal peso non inferiore a 200 kg. Nella zona è comune che castori e marmotte trovino rifugio in tane sotterranee nel lungo periodo del letargo. Intanto, uno dei casi più convincenti era già venuto alla ribalta. Nell'ottobre del 1967 due giovani, Roger Patterson e Bob Gimlin, si trovavano a Bluff Creek in una contea nella California settentrionale, quando all'improvviso, appena superata la svolta della vallala, i cavalli, spaventati, li avevano sbalzati di sella. A circa trenta metri di distanza, sul crinale opposto della montagna, c'era una grande creatura scura, con il corpo tutto ricoperto di pelame, che si muoveva come un uomo. Rogcr, afferrata la cinepresa, si era messo a filmare. L'essere - istintivamente riconosciuto come una femmina - si era fermato, volgendo lo sguardo verso di loro. «Non sembrava fosse disturbata dalla nostra presenza, quanto incuriosita dalla macchina da presa, una cosa certamente nuova per lei». Quando Patterson aveva provato a inseguirla, si era subito messa a correre velocemente, tanto che dopo qualche centinaia di metri si era già staccata per scomparire nel folto di una foresta di pini. Il filmato, divenuto celeberrimo, mostra un essere alto circa 2 m, dal peso stimabile di una tonnellata o forse più, con capelli bruno rossicci, seni e natiche prominenti. Raggiunta una posizione di sicurezza, si era voltata con fare quasi curioso in direzione della cinepresa, rivelando un volto completamente ricoperto di pelo. La punta della testa aveva una forma conica, una connotazione condivisa sia dai gorilla di montagna che dal cugino primo del Sasquatch, lo yeti o "abominevole uomo delle nevi", al quale in più atteggiamenti sembra senz'altro assomigliare. Stando agli zoologi, un cranio così conformato permette di dare una maggiore forza ai muscoli delle mascelle, chiamale a triturare rami legnosi. Ovviamente, furono molti i contestatori che considerarono il filmato come fasullo, affermando che l'essere altro non era che un uomo di grande statura vestito con la pelliccia di uno scimmione. Eppure nel suo bel libro More Things, lo zoologo Ivan Sanderson cita tre illustri scienziati, i dottori Osman Hill, John Napier e Joseph Raighl, tutti concordi nel riconoscere che dal filmato non si evince alcun dettaglio che induca a pensare a un imbroglio. D'altro canto, una serie di calchi di impronte prese proprio nel terriccio della vallata, segnalavano il passaggio di una creatura alta non meno di un paio di metri. La versione asiatica dell'americano Bigfoot è lo yeti, meglio conosciuto in occidente col nome di "abominevole uomo delle nevi". Quando nel 1951 l'esploratore himalayano Eric Shipton stava valicando il ghiacciaio del Menlung sull'Everest, aveva avuto agio di osservare grandi impronte di piedi, che aveva avuto la prontezza di fotografare ponendovi accanto un'assicella di legno che fungeva da parametro di comparazione. Si trattava di un piede, di quasi 40 cm di lunghezza e oltre 20 di larghezza, dalla sagoma curiosa: tre piccole dita e un quarto molto evidente, dalla forma pressoché circolare. Quel piede apparteneva senza ombra di dubbio a un essere che camminava in posizione eretta e di certo non si trattava né di un lupo né di un orso. L'unico animale che si poteva chiamare in causa era l'orangutan, ma queste scimmie hanno il dito grosso molto più allungato. Sin da quando gli esploratori europei incominciarono a visitare le montagne asiatiche del Tibet, sentirono parlare di una strana creatura, simile a una scimmia gigantesca, che i locali chiamavano Metohkangmi, che tradotto in termini letterali significa per l'appunto "abominevole uomo delle nevi". Le leggende echeggiavano su una vastissima zona geografica, dal Caucaso all'Himalaya, dal Pamir alla Mongolia, fino ai confini estremi della Russia. Nell'Asia centrale vengono chiamati Mehteh, o yeti, mentre le tribù orientali usano la parola Almas. Pare che il primo riferimento a questi esseri ampiamente diffuso in occidente sia stato il rapporto, datato 1832, di B.H. Hodgson, ambasciatore inglese residente presso la corte reale del Nepal, dove si racconta come i cacciatori del posto e i nativi in genere, temessero fortemente la presenza di un "uomo selvatico", con il corpo ricoperto di peli. Più di mezzo secolo dopo, nel i 889, fu la volta del maggiore L.A. Waddell. Mentre stava esplorando l'Himalaya, a quota 5000 m, si era imbattuto in alcune grosse impronte, ben impresse nella neve fresca. I portatori locali, spaventati, gli dissero, senza esitazione, che si trattava del recente passaggio di uno yeti, una creatura feroce propensa ad attaccare l'uomo per cibarsene. Il modo migliore per sfuggirgli era scendere a valle, perché lo yeti aveva capelli così folti e lunghi che, scendendogli sugli occhi nel corso della discesa, gli impedivano di avere una buona percezione visiva. Nel 1921 i componenti di una spedizione guidata dal colonnello Howard-Bury, impegnata nell'aprire per la prima volta un'ascesa sul versante settentrionale dell'Everest, avevano osservato a debita distanza, nei pressi del valico di Lhaptala, alcune creature scure, contrastanti con il candore della neve, che i portatori tibetani indicarono subito come yeti. Nel 1925 N.A. Tombazi, membro della Royal Geographical Sociely, riferì di aver tentato invano di fotografare sul ghiacciaio Zemu un essere che si muoveva goffamente su due gambe. Purtroppo, nel momento in cui era pronto allo scatto, questo era svanito nel nulla. E così, con questo ritmo, leggende e testimonianze si sono intrecciate fino ai nostri tempi, sempre connotate da quel tono di mistero e di lieve dubbio bastevoli per consentire alla scienza di rigettare ogni cosa, parlando di sogni a occhi aperti, inganni e mistificazioni. La fotografia scattata da Shiplon nel 1951 ebbe un'eco straordinaria proprio perché era stata presa dal componente di una spedizione scientifica, che non avrebbe avuto alcun motivo di raccontare frottole. Oltre tutto poi, l'immagine parlava da sola e non necessitava di alcun commento. Almeno così veniva da immaginare. Invece il Dipartimento di storia naturale del British Museum non la pensava così, tanto che uno dei suoi più illustri rappresentanti, il dottor T.C.S. Morris-Scott denunciò al mondo scientifico che la sua idea era ben diversa e che l'orma fotografata apparteneva a una creatura, l'entello himalayano, che i locali chiamavano langur. La sua decisa affermazione si fondava sulla descrizione di uno yeti fatta dallo sherpa Ten Sing, il quale parlava di una creatura poco più alta di 150 cm, dall'andatura eretta, il cranio a punta conica e una folta pelliccia rossastra. Secondo Morris-Scott questa descrizione collimava alla perfezione con quella del langur. La principale obiezione a questa osservazione stava nel fatto che anche il langur, come la maggioranza delle scimmie, procede quasi sempre a quattro zampe e vanta cinque dita molto allungate, compreso quello prominente che non è mai arrotondato. Alla fine, l'ipotesi venne rigettata dagli stessi colleghi di Morris-Scott e presto dimenticata. L'enigma dell'uomo delle nevi continuava pertanto a restare tale. Un'ipotesi un poco più fantasiosa è quella proposta dallo zoologo olandese Bernard Huevelrnans, esposta in una serie di articoli apparsi a Parigi nel 1952. Egli ricordava che nel 1934 il dottor Ralph von Koenigwald aveva scoperto in un'antica farmacia cinese di Honk Kong alcuni antichissimi denti; la tradizione cinese attribuisce alla polvere di dente particolari doti terapeutiche. Fra quei denti c'era un molare di tipo umano, grande almeno due volte quello di un normale gorilla adulto, idea che suggeriva fosse appartenuto a una creatura alta circa 6 m. Alcuni approfondimenti rivelarono che il mostruoso gigante - divenuto noto in tutto il mondo col nome di gigantopithecus - si era estinto da circa mezzo milione di anni. Per Huevelrnans, dunque, l'impronta che Shipton aveva fotografato doveva appartenere a un erede, chissà come sopravvissuto, del gigantopithecus. La sua teoria venne snobbata e solo pochi colleghi si degnarono di prenderla in considerazione. Nel 1954 il giornale «Daily Mail» finanziò una spedizione al fine di catturare (o per lo meno riuscire a fotografare) uno yeti. Dopo 15 settimane di inutili sopralluoghi, tutto si era concluso senza il minimo successo, se solo si fa eccezione per un'informazione decisamente importante. La spedizione aveva scoperto che in molti monasteri tibetani erano conservati scalpi di yeti, considerati preziose reliquie. In alcuni casi una visione diretta aveva consentito osservazioni affascinanti. Erano tutti lunghi e conici, simili a una mitra vescovile, e ricoperti da un fitto pelame, compresa una specie di "cresta" nel centro, composta da capelli diritti. In un caso si era scoperto che lo scalpo gelosamente conservato era un falso, vale a dire era stato ottenuto con alcuni brandelli di pelle di animale cuciti insieme. Tuttavia, tanti altri risultavano ricavati da un solo pezzo di pelle. Frammenti di capelli prelevati da questi scalpi li rivelarono appartenenti ad animali sconosciuti. Insomma, anche se lo yeti non era stato catturato, erano comunque emerse prove più che sufficienti a dimostrarne l'esistenza. Ma niente da fare, neppure questa volta. Quando a Sir Edmund Hillary venne concesso, in segno di grande onore, di trattenere uno scalpo per qualche tempo - ricordiamo quanto l'oggetto fosse tenuto in alto riguardo presso i sacerdoti tibetani - Bernard Huevelmans ebbe l'opportunità di studiarlo a fondo. Disse che gli ricordava la sagoma della testa di una grande capra di montagna che aveva avuto modo di osservare a lungo in uno zoo negli anni prima della guerra. Questo tipo di caprone, grande e massiccio, vive anche in Nepal, la terra per eccellenza dell’abominevoli uomo delle nevi. Huevelmans ne aveva allora portato uno a fini di studio presso il Royal Institute di Bruxelles, dimostrando con una comparazione dettagliata che anche gli scalpi conservati dai preti tibetani appartenevano a questo genere di animale. La pelle era stata appiattita e lavorata col vapore, ma non si poteva parlare di un falso deliberato. Si trattava di un copricapo che veniva indossato dai sacerdoti celebranti nel corso di particolari riti. La tradizione era antichissima e risaliva a tempi sconosciuti. Gli scalpi risalivano a questi periodi, erano stati tramandati come scalpi di yeti e tutti continuavano a ritenerli tali. A questo punto, era diventata convinzione comune che la storia dello yeti altro non fosse che una leggenda. Eppure, anche questa volta si trattò di una conclusione affrettata. Certo, i tanti europei che si erano spinti alla ricerca della misteriosa creatura potevano anche essersi sbagliati nel sostenere di aver visto una cosa anziché un'altra; ma come si potevano liquidare con tanta facilità le impronte, avvistate e fotografate in abbondanza? Nel 1955 un francese, l'abate Bordet, ne vide addirittura tre serie. Nello stesso anno il capo di una spedizione, Lester Davies, ne filmò altre. Nel giugno del 1970, lo scalatore Don Whillans sostenne di aver scorto una creatura molto simile a una grossa scimmia sui contrafforti dell'Annapurna e nel 1978 Lord Hunt fotografò alcune nitide impronte. Nel frattempo anche in Russia cominciarono a venire allo scoperto alcune testimonianze. Nel 1958 il tenente colonnello Vargen Karapetyan pubblicò su un giornale moscovita a larga tiratura un ampio articolo sullo yeti - da quelle parti conosciuto come Alma - intervistando a lungo il più noto esperto del campo, il professor Boris Porshnev. Nel dicembre del 1941 la sua unità operativa stava combattendo contro i tedeschi invasori sul fronte del Caucaso, nelle vicinanze di Buinakst. Un giorno erano andati da lui alcuni partigiani, i quali lo avevano sollecitato ad andare a vedere un prigioniero appena catturato. Gli dissero però che avrebbe potuto osservarlo solo da lontano, perché non appena era stato ricoverato dentro una stanza al caldo si era denudato e aveva incominciato a sudare in abbondanza, per di più era pieno di pulci dalla testa ai piedi. Si trattava di un essere senz'altro diverso da una scimmia: nudo, sporco e spettinato, pareva sordo e spaesato, vacillante. Karapetyan aveva voluto egualmente avvicinarlo. Quando gli aveva scostato i lunghi capelli incolti dal viso per guardarlo in volto, la più netta impressione ricevuta era una silenziosa richiesta di pietà e aiuto. Era evidente che non capiva ciò che gli veniva detto. Alla fine Karapetyan se n'era andato, invitando il gruppo di partigiani che lo aveva in custodia a pensare che fare di quello strano uomo. Qualche giorno dopo gli era giunta la notizia che era scappato. Ovviamente, la storia puzza di bruciato, come si dice. Eppure, un rapporto del Ministero dell'Interno del Daghestan confermò ogni cosa, aggiungendo una nota decisiva in più. L'uomo selvaggio era stato giudicato dalla corte marziale e giustiziato come traditore. Nel gennaio del 1958 il professor Alexander Pronin, dell'Università di Leningrado, riferì di aver visto un Alma. Si trovava nel Pamir, quando ad un tratto aveva scorto, sullo sfondo delle rocce, una creatura ignota che si stava arrampicando. Aveva una sagoma umana, con lunghi capelli rossicci. Quando si era accorto della sua presenza, era rimasto a guardarlo per quasi cinque minuti, poi era scomparso. Tre giorni dopo, il contatto a distanza si era ripetuto in quello stesso posto. Per una serie di logici motivi, la dottrina marxismi non accettava l'idea dell'uomo selvatico, ma quando le notizie incominciarono ad accumularsi, l'evidenza non potè più essere negata. Dobbiamo a Boris Porshnev la raccolta di tutte le testimonianze di avvistamento di un Abominevole nel mondo russo, una serie di notizie di cui Odette Tchernine si è ampiamente servita per il suo notevole libro intitolato The yeti. Proviamo, adesso, a sintetizzare i fatti: la prova relativa all'esistenza reale di una creatura singolare chiamata yeti. Alma, Bigfoot, Sasquatch o "abominevole uomo delle nevi" è piuttosto acclarata e centinaia di segnalazioni inducono a credere non possa fondarsi soltanto su fantasie e immaginazioni. Se, dunque, un essere simile esiste per davvero, di che cosa potrebbe trattarsi? La professoressa Myra Shackley, assistente di archeologia presso l'università di Leicester, sostiene di saperlo. È convinta che lo yeti sia un uomo di Neanderthal sopravvissuto. La sua ipotesi viene condivisa in pieno dalla Tchernine, sulla scorta del suo attento studio dei molti casi sovietici. Come sappiamo, l'uomo di Neanderthal è il predecessore dell'attuale umanità. Le prime tracce della sua comparsa vengono fatte risalire a circa 100.000 anni or sono. Era più piccolo e più simile a una scimmia che non l'uomo d'oggi, dotato di una fronte sfuggente e di una mandibola prognata. Viveva in caverne e i mucchi di ossa di animali commestibili rintracciate in questi rifugi attestano che le donne erano delle casalinghe poco ordinate e pulite. Probabilmente era anche dedito al cannibalismo, tuttavia non si può dire avesse soltanto tratti animaleschi. Il ritrovamento di alcuni pigmenti colorati all'interno delle grotte abitate, dimostra, per esempio, che amava i colori e certamente apprezzava la bellezza dei fiori. Inoltre, poiché aveva l'usanza di seppellire i morti, è presumibile immaginare che credesse nell'aldilà. Alcune misteriose pietre arrotondate e graffiate, inducono ad attribuirgli anche una qualche forma di religiosità, forse un culto solare. Il nostro antenato più diretto, il cosiddetto uomo di CroMagnon, si affacciò sulla Terra soltanto 50.000 mila or sono ed è a lui che dobbiamo le celebri raffigurazioni rupestri. Col suo arrivo, l'uomo di Neanderthal scompare all'improvviso, secondo una dinamica che ancora oggi la scienza non è in grado di spiegare. L'idea generale è che sia stato completamente annientato e sostituito dal CroMagnon. Nella sua opera dal titolo The Neanderthal Question, lo psicologo Stan Gooch avanza una tesi sconcertante: questo nostro antichissimo antenato non si sarebbe estinto del tutto e le femmine congiunte con i maschi dei nuovi arrivati CroMagnon avrebbero dato origine a una sottorazza diversa, i cui discendenti sarebbero stati il ceppo originario della razza ebrea. (È bene sottolineare che lo stesso Gooch è un ebreo). Secondo lui l'uomo di Neanderthal vantava doti psichiche superiori a quello di CroMagnon e quelle possedute dall'uomo moderno deriverebbero proprio da questa razza antica. Che si condivida o meno la teoria di Gooch, non è comunque impossibile immaginare che l'uomo di Neanderthal non ce l'abbia fatta a sopravvivere, scacciato in qualche enclave segreta e solitaria dalla nuova razza di uomini che si stava impossessando del pianeta. La già citata Myra Shackley ha setacciato i monti Aitai spingendosi fino alla Mongolia ed è convinta che l'Alma esista davvero: «Vivono all'interno di caverne, cacciano per procurarsi il cibo, utilizzano attrezzi in pietra e vestono con pelli di animali lavorate». Fra i tanti casi, la Sheckley ricorda quello di un dottore russo che nel 1972 ebbe in ventura di incontrare un'intera famiglia di Alma. Anche Odette Tchernine riporta molti episodi simili e lo stesso fa il professor Porshnev, il quale ha portato alla luce un gran numero di tradizioni popolari legate alla presenza dell'uomo selvatico e di queste misteriose creature. Presso gli Abzachiani, per esempio, sono ancora oggi vivissime le leggende di Alma catturati e condotti nel mondo civile e addomesticati. La Tchernine parla di loro chiamandoli pre ominidi. Porshnev ha investigato di persona su un caso di estremo interesse riguardante un esemplare femmina di Alma catturato a metà del XIX secolo nella regione dell'Ochamchir. Alcuni cacciatori della zona, imbattutisi in un Alma femmina, l'avevano catturata e portata al villaggio. Aveva un aspetto scimmiesco, con lunghi capelli scuri e pelo sul corpo. Violenta e cattiva, per anni non c'era stato verso di addolcirne il carattere ed era vissuta in una gabbia, dentro la quale i custodi gettavano il cibo. Le era stato assegnato il nome di Zana. Porshnev riuscì ancora a intervistare alcune persone che l'aveva vista e la ricordavano, fra cui un uomo di oltre centocinque anni. Poi, finalmente, si era calmata e aveva incominciato a socializzare. Poco alla volta aveva imparato a compiere qualche piccolo lavoro, come per esempio sgranare le pannocchie di granturco. Aveva un grande seno, gambe e braccia muscolose, dita sottili e lunghe; odiava il caldo e preferiva stare al freddo. Andava pazza per l'uva, che divorava a grappoli, amava bere il vino: beveva parecchio per addormentarsi di colpo riposando profondamente per ore e ore di fila. Era divenuta madre in più di un'occasione con padri diversi, ma i figli erano tutti morti, per quella sua mania animalesca di trattarli troppo rigidamente, per esempio andandoli a lavare nel fiume ghiacciato (poiché i neonati potevano ormai considerarsi esseri quasi umani, non avevano ereditato la straordinaria resistenza al freddo della genitrice). Alla fine, i paesani decisero di sottrarle l'ultima, chiamiamola così, cucciolata. I bambini erano stati allevati nel villaggio ed erano cresciuti sani e molto simili a normali esseri umani. Avevano imparato a parlare e ragionavano in modo logico. Il più giovane è morto in tempi relativamente recenti, nel 1954 (Zana se n'era andata nel 1890). Porshnev ha avuto modo di incontrare due pronipoti di Zana, constatandone la pelle scura e le fattezze di tipo negroide. Uno dei nipoti, un certo Shalikula, possedeva una mascella così potente da essere in grado di reggere fra i denti una sedia con un uomo seduto sopra. Al di là di qualsiasi altro discorso, ci sembra che questa sia una prova quanto mai evidente che l'esistenza dell’abominevole uomo delle nevi, potrebbe non essere affatto frutto di immaginazione.

http://www.misterieleggende.com/mostri_creature/bigfoot.php


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